26 September, 2008

江戸東京博物館。Edo Tokyo Museum: a spasso nel passato.


Non lasciatevi sorprendere troppo dall'aspetto esteriore di una delle costruzioni più singolari di tutta Tokyo, che riprende in chiave moderna la struttura dell'antico Castello di Edo, superando i 62 metri nel suo punto di maggiore altezza.
E, nonostante la scala d'accesso somigli più all'ingresso di un'astronave, all'interno dell'Edo Tokyo Museum potrete letteralmente passeggiare tra le strade dell'antica Edo, che nel 1868 divenne la nuova capitale del Giappone con il nuovo appellativo di Tokyo (Capitale dell'Est).


I tornelli d'ingresso si trovano al piano 6F e, una volta superati, potrete cominciare a calarvi nell'avvolgente atmosfera dell'epoca attraversando la perfetta ricostruzione del ponte Nihonbashi.


Nello stesso livello, all'interno di enormi display potrete ammirare ricostruzioni planimetriche in scala dell'urbanistica dell'epoca.
Al piano inferiore passeggerete nelle vie dello shopping, tra insegne di altri tempi ricostruite con un'incredibile dovizia di particolari.


Insieme all'esposizione permanente dell'antica città di Edo, durante l'anno al Museo sono anche allestite delle Special Exhibition.


La prossima, dal titolo "Printed Treasures: Highlights from the Museum of Fine Arts, BOSTON", si terrà dal 7 ottobre al 30 novembre, e consentirà di ammirare un'attenta selezione di stampe ukiyo-e di leggendari artisti quali Suzuki Harunobu, Kitagawa Utamaro, Toshusai Sharaku, Katsushika Hokusai, Utagawa Hiroshige.

Io ci vado ^^

22 September, 2008

Quello che le guide non dicono - 3° e ultima Puntata

A cuore nudo nel parco


Ho oltrepassato di nuovo il confine: sono oltre la quarantesima verso nord. Tirerò dritto per tutta la Fifth Avenue fino ad arrivare a Central Park e, visto che da quelle parti tutto costa il doppio, compro un pretzel da un venditore ambulante, controllando che sia ancora morbido. Appena arrivo all’altezza della settantantesima, non resisto e devo avere la riprova.


È vero. Un hot dog che tre blocks più a sud costava un dollaro, qui ne vale due. Con aria soddisfatta per questa scampata beffa che di solito si rifila al turista (e io lo sono), entro nel parco e fuggo dal primo tratto di visitatori che sfamano scoiattoli, anche se la vista è favolosa. So che alla mia destra c’è Strawberry Fields, il giardino dedicato a John Lennon, ma la mia guida, the city, mi fa segno di proseguire. E faccio bene.


Non sapevo che ci fosse un castello immerso nel parco. Poi scoprirò che è il Belvedere Castle, la cui terrazza affaccia sul Delacorte Theater, dove l’estate vengono rappresentate opere di Shakespeare. Ma ora è inverno e il cielo è anche particolarmente plumbeo. Quasi invidio io stessa il mio essere lontana dalla frenesia cittadina, immersa in un’atmosfera medievale e poco frequentata, che tuttavia non pare turbarmi. Dietro le mie spalle batte il cuore di Harlem e mi sembra di sentirlo. Intanto, un sax ha appena iniziato a farmi da colonna sonora. Che inaspettato accordo tra paesaggio, suoni e pensieri. Mi metto in cerca della mia orchestra; è costituita da un suonatore di passaggio che scovo sotto un ponticello a pochi metri dal castello. Mi avvicino e lui continua ignorandomi il suo concerto. Il cappello nero impolverato ma non logoro è di fronte a lui e un grande dubbio mi assale: che valore ha un incontro perfetto?
Voi gli avreste lasciato solo un dollaro?


Il ritorno al mio albergo è facile e indolore, visto che la progressiva numerazione delle Streets e delle Avenues indica sempre a che punto ti trovi.
Se solo avessi i soldi, passerei molto più tempo a giocare con Manhattan. Prima di rientrare però, voglio fare un salto in una libreria dell’Upper East Side. E, incredibile a dirsi, ho comprato una guida. Ma ne valeva veramente la pena: si tratta della “Cheap bastard’s guide to NYC”, ovvero i segreti per vivere gratis a New York. Non vi sembra il più bel ringraziamento che la città potesse farmi per averla seguita?

17 September, 2008

芸妓。Di Geisha* e altre storie fluttuanti. Madama Butterfly.


Foto di Daniele Mattioli, tutti i diritti riservati.

"Un bel dì vedremo levarsi un fil di fumo
là sull'estremo confin del mare.
E poi la nave appare.
E poi la nave è bianca...
Entra nel porto, romba il suo saluto.
Vedi? È venuto!"

Quando lessi la prima volta il libretto della Madama Butterfly avevo circa 8 anni. Me ne stavo lì, seduta sul parquet davanti al giradischi, il mio volto di bimba riflesso su ante lucide di ciliegio. Passavo le ore a rovistare tra i vinili di mia madre, starnutivo tra la polvere e mi chiedevo perché Patty Pravo non avesse le sopracciglia.

Una volta la mia attenzione venne attratta da un cofanetto rosso con sopra scritto "Madama Butterfly". All'interno un grosso disco e un libretto un po' ingiallito.
Lo lessi distrattamente senza capirne il significato. Ora conosco tutte le più famose arie di Puccini a memoria.

Londra, 1900. Dopo aver assistito alla Madama Butterfly del commediografo David Belasco, Puccini decise di rielaborare la rappresentazione concentrandosi su quella misteriosa e affascinante figura orientale: la geisha*.
Egli compose le sue arie senza essersi mai recato in Giappone, raccogliendo tutte le informazioni come poteva e, in particolare, grazie all'aiuto dell'attrice giapponese Sada Yakko e alla moglie dell'allora ambasciatore giapponese in Italia.
La prima, disastrosa rappresentazione della Madama Butterfly avvenne il 17 febbraio 1904 al Teatro della Scala a Milano. Il pubblico non capì la delicatezza del dramma e, solo dopo diverse rielaborazioni, l'opera venne finalmente riproposta.

Il dramma racconta della tragica storia d'amore tra il tenente della Marina degli Stati Uniti Pinkerton e la giovanissima geisha Cho Cho-san (che in giapponese significa appunto farfalla), figlia di una famosa e ricca famiglia di Nagasaki, caduta in disgrazia dopo il suicidio del padre.
Il tenente Pinkerton, follemente attratto dalla bellissima fanciulla, decide di sposarla per gioco e per appagare i suoi capricci ma con rito giapponese, lasciandola solo un mese dopo per tornare alla sua vera vita in America, con la falsa promessa di ritornare da lei "a primavera, quando i pettirossi fanno il nido".
Struggente l'aria "Addio fiorito asil", dove il tenente canta il suo addio con il rimorso nel cuore. Prima di partire, Pinkerton ci rivela di amare sinceramente Butterfly, ma non può più sottrarsi al suo destino.

Butterfly persiste nel suo amore senza mai ascoltare le parole della sua fedele dama di compagnia Suzuki, ne' quelle del console americano Sharpless che conosce tutta la verità.
Malgrado la totale assenza di notizie, lei lo attende fiduciosa per tre lunghi anni, ignorando una proposta di matrimonio che potrebbe riportarla a una vita agiata e continuando a sperare di vedere un giorno spuntare un fil di fumo sul mare.

È durante un dialogo tra la geisha e il console che scopriamo il vero motivo per cui Butterfly non può dimenticare Pinkerton. Ella infatti gli mostra un bimbo biondo e dagli occhi azzurri. Il servitore Goro, dopo aver spiato la scena, corre a raccontare a tutti del bimbo. Suzuki lo scopre e lo trascina davanti alla sua signora e, proprio mentre sta per pugnalarlo si sente in lontananza un colpo di cannone: è la Lincoln, la nave di Pinkerton.
Butterfly impazzisce dalla gioia e ordina a Suzuki di preparare tutto per l'arrivo del marito.
Ascoltate il brano che descrive questo momento, il Flower Duet. La potenza delle voci e la musica trascinante, crederete anche voi di impazzire insieme a Butterfly.

Come farei per un romanzo giallo, non vi racconterò il finale.
Se vi è possibile, vi consiglio di procurarvi un'edizione della Butterfly, possibilmente cantata dalla divina, Maria Callas, e, libretto alla mano, ascoltate l'intensità dell'epilogo.

*Con il termine "geisha" in Occidente si indica quella che in Giappone viene invece definita "Geiko", ovvero l'artista tradizionale giapponese che esprime la sua arte attraverso la musica, il canto, la danza e la conversazione.
Il termine "geisha" viene introdotto in Occidente dopo l'invasione americana del Giappone durante lo scorso secolo, quando si definivano così le accompagnatrici dei quartieri di Tokyo.
Mentre nell'immaginario occidentale la geisha viene relegata alla semplice funzione di intrattenitrice del pubblico maschile, in Giappone ogni gesto della Geiko deve rappresentare bellezza e armonia, ed ella lavora sodo per esprimere qualcosa di sublime anche nel semplice atto di versare una tazza di sakè.

12 September, 2008

Quello che le guide non dicono - 2° Puntata


“Dico sempre che lo shopping è meno caro di uno psicanalista.” Tammy Faye Bakker

Credo di essere nel cuore del Greenwich Village. Le case ora si sono fatte tutte basse, con fiori alle finestre e gatti sognanti dietro; la maggior parte dei passanti porta con sé uno strumento musicale e noto innumerevoli Nail’s shop, uno ogni dieci negozi. Per 6 dollari c’è un’orientale disposta a farti le mani, con tanto di scrub ai sali marini. Lo smalto lo scegli tu tra mille. Dei grandi centri commerciali non c’è traccia. L’atmosfera mi fa venire voglia, anzi un vero e proprio bisogno, di Vanilla Coke, la coca cola più azzardata e azzeccata che conosca.

La prima sorpresa delle viette con gli alberelli ai lati è Salvation Army. Questa Onlus - credo lo sia - raccoglie oggetti e indumenti di ogni genere per poi distribuirli nei propri punti vendita e rivenderli. Sono negozi conosciuti in tutta America. Il ricavato va in beneficenza of course. Ma non si tratta di merce avariata: qui ho trovato giacche di pelle a 10, t-shirt (per cui certi adolescenti italiani venderebbero la madre) a 2… La grande mela offre davvero tanto shopping low budget, basta scovarlo.


Un’altra chicca è costituita dai vestiti del Prom Day. Questa festa tutta a stelle e strisce (paragonabile al nostro ormai sorpassato debutto in società) fa sì che le ragazze scelgano per l’occasione un fantastico vestito. E per la felicità di chi capiterà poi in un negozio dell’usato, lo indosseranno solo una volta. Come il vestito da sposa. Fino a qualche anno fa c’era Domsey’s, un palazzo intero per poter scoprire le gioie dello shopping senza correre il rischio di diventare un’eroina di Sophie Kinsella, con milioni di vestiti da sera (ex Prom-day). Ma ora “si sono trasferiti”, chissà dove. Pazienza, indosserò i livais presi a sei dollari. E poi dicono che Manhattan è cara.


“Ci dovrebbe essere un Lower East Side nella vita di ognuno.” Irving Berlin

La metafora della grande cipolla è la più calzante per il quartiere che - dopo aver sistemato la lunga coda di capelli finti che arricchisce la mia capigliatura - sto per attraversare. Il Lower East Side, infatti, si lascia scoprire strato dopo strato e ognuno rappresenta un decennio, un gruppo etnico, qualcuno. Infatti, ho un’emozione in più nel percorrerlo: qui c’è lo SIN-E, il locale in cui suonava Jeff Buckley, un musicista di cui solo da qualche anno, cioè dopo la sua tragica morte nel Mississipi, il mondo sembra essersi accorto. Inizio a riprodurre mentalmente le note di Last Goodbye. Se fumassi mi accenderei una sigaretta, per gustarmala con aria maledetta su una panchina. Ma per fortuna che non ho questo vizio, visto che in tutta Manhattan è permesso solo in cinque locali.

Supero negozietti artigianali o quasi, bancarelle punkabestia, negozi piccolissimi ed esclusivissimi di cd (se cercate qualcosa di Bill Laswell non mancate quello sulla Bowery), locali marocchini molto in voga, sushi freschissimi, ristoranti indiani profumatissimi e pub accoglienti, issimi anche loro.


Sono lontana dalla New York dei film e, nello stesso tempo, sono proprio lì. Infatti, la città deve veramente amarmi, perché sbuco a un incrocio con Delancey Street. La via in cui è stata girata una scena del mio film preferito: C’era un volta in America. Mi immedesimo in una di quelle donne ebree che il giovedì sera, negli anni Dieci-Venti, si recava a un mercato del quartiere per preparare il shabbat, mentre dieci metri più in là, i gangster ebrei, gli stessi interpretati nel film da De Niro e gli altri, si sparavano per inventare la loro America.

Prima puntata

07 September, 2008

生け花。Incontri ravvicinati con l'ikebana.


Non è che capiti proprio tutti i giorni di poter assistere all'esposizione collettiva per l'ottantesimo anniversario della leggendaria Scuola di Ikebana Sogetsu a Tokyo.
Ma a me è capitato per ben due volte, complice il destino che mi ha fatto ricevere due inviti per la stessa mostra a distanza di pochi giorni.

La prima occasione arriva in un piacevole pomeriggio di settembre.
A spasso per la sempre affollata ma per me instancabile Shibuya, l'afa di agosto magicamente scomparsa sotto un incredibile akibare, il nome con cui in Giappone si indica il cielo d'autunno. Il mio cellulare rosa si illumina giocoso; ancora non ho idea dello stupore che proverò solo un'ora dopo, davanti a quelle opere di fiori viventi.


Salto sulla Denentoshi-sen e scendo a Futakotamagawa. La mia amica M-chan è in italianissimo ritardo di 20 minuti; inganno l'attesa osservando l'abilità del venditore di tai-yaki.


La mostra è allestita in un padiglione espositivo all'interno del department store Takashimaya; chiediamo agli impeccabili sorrisi della reception come arrivarci.
Inizia così il percorso ad ostacoli visivi tra lussuose vetrine griffate: Armani, Prada, Cartier...

L'atmosfera è decisamente solenne, ma le luci morbide e la bellezza delle composizioni mi impediscono di avvertire gli sguardi diretti all'unica gaijin presente alla mostra.


I tre artisti (Chigusa Onaka, Fumi Oka e Ryu Ishikawa) espongono lavori certosini e colossali allo stesso tempo, esprimendo la natura rappresentativa della scuola Sogetsu che, a differenza delle scuole tradizionali, accetta l'abbinamento di elementi nuovi e diversi dalle sole piante e fiori (Marzia-san correggimi se sbaglio^^).

Nuvole di orchidee sorrette da intrecci geometrici, boccioli che si elevano da foglie galleggianti e una intricata foresta di rami carichi di yuzu. L'effetto è quello di capirci magicamente qualcosa, perché dentro al petto qualcosa succede.


Esco da questo mondo un po' stordita, ma torno in me il tanto per firmare il guestbook in kanji, sotto gli sguardi divertiti delle addette.

La scena si ripete domenica pomeriggio. Mi presento munita di camera digitale e sguardo fiero da gaijin che forse la volta prima ci aveva capito qualcosa.

02 September, 2008

Quello che le guide non dicono - 1° Puntata

“Sfogliate pure, visitatori di ogniddove, sottolineate con l’evidenziatore le tappe imperdibili del vostro prossimo viaggio. Ma nessuna guida è migliore del luogo stesso in cui vi trovate. Basta ascoltarne il respiro e seguirne il ritmo. A quel punto sì che sarete davvero persi. Dentro un nuovo fantastico mondo.”

Nel cuore di Manhattan, a ventisette passi da Time Square, c’è un bar dove si parla solo lo spagnolo. Dopo aver ordinato un cafe, facendo attenzione che non me ne servano uno normal, che a NY significa con latte, prendo il mio cup e mi preparo a divorare chilometri.
Proprio così. Sto per ingurgitare mezzo litro di lontanissimo parente dell’espresso da un agglomerato plastico-alimentare, uno di quelli in cui da Mac Donald ti ci servono la Coca Cola. È il modo più veloce per iniziare a vivere Manhattan da autentica newyorkese.


Fingo di bere un po’ dell’infuocato caffè, visto che se lo facessi davvero le mie labbra diventerebbero un nuovo capolavoro di Picasso. Ma è servito ad ingannare la città che, riconoscendosi nel mio gesto, sta già guidandomi sulla quarantaseiesima.
Mi fermo davanti ad un tipico negozio da 99 cents: un bazar orientale in cui si può sbrigare, in modo indolore per il portafoglio, l’inspiegabile usanza italiana di dover portare un regalo a tutti quando si va negli Stati Uniti. Sopra di me solo la verticalità cristallina di un grattacielo.


Chissà quanti 0 e 1 digitati staranno cambiando il mondo in questo momento? Magari proprio da uno di questi piani che mi sovrastano… La complessità della riflessione mi spinge a saltare il discount cinese e a seguire il ritmo salsa delle streets. Salsa non per una vena latina, ma per il melting pot di possibili vite che tenta chiunque ci passeggi. A suon di congas, allora, supero la quarantesima e viro verso sud. Una giornalista americana che vive nell’East Village mi ha detto che la quarantesima è il suo off-limit. Andare oltre sarebbe sconfinare in una Manhattan che non la rappresenta.

Forse anche chi vive nel lussuoso Upper East Side non scende mai negli inferi del Village. Di certo non immaginavo che anche qui ci fosse una sorta di antagonismo cittadino, un po’ come tra Roma nord e Roma sud o tra Milano dentro e fuori le mura.


Il caffè è finito da un pezzo e voglio capire cos’altro può fare di me una newyorkese autentica, anzi in questo caso una newyorkese che non supera la quarantesima, visto che mi trovo all’altezza della ventisettesima. Vagando, mi trovo in uno slargo occupato da alcune bancarelle. Mi informo: è il Flea Market. Un orrido ammasso di cianfrusaglie che ogni sabato danno vita a questo strano mercato per essere vendute chissà a chi. Do un’occhiata, magari scovo un Andy Warhol very original, chessò uno scarabocchio di quando era piccolo finito tra questi ciaffi per caso. E invece no, ma come distolgo lo sguardo dalla montagna di roba in cui stavo rovistando, mi rifletto in una vetrata tirata a lucido, che sembra lo specchio di Alice nelle Meraviglie.
Che mondo nasconde? Senza che nessuna mappa me lo abbia segnalato, per puro caso, entro al Greenroom, tappa che nessun vero fanatico del trendy salterebbe per il brunch del sabato. E oggi è proprio sabato. La musica jazz dal vivo sembra suonata dalle piante che affollano questo locale. Ma è quell’immenso ficus benjamin a produrre l’irresistibile pezzo di Gerschwin che sto ascoltando? Non esageriamo adesso, è solo che la band è nascosta da una parente stretta della foresta amazzonica. Ci sono piante e alberi di ogni tipo. Per quindici dollari pranzo e soprattutto bevo champagne.

Altri appuntamenti americani mi insegneranno che negli Stati Uniti è un’usanza sorseggiarne durante il brunch. Intanto fuori, l’assenza di giapponesi e di zainetti Invicta mi convince che New York mi sta volendo bene, portandomi nei suoi posti più veri e paradossalmente così poco nascosti. Accetto l’invito e riprendo a camminare...

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